Piazza Fontana la STRAGE IMPUNITA

By 12 Dicembre 2009 Ultime No Comments

40 anni fa, il 12 dicembre 1969 esplode una bomba collocata nella Banca Nazionale dell’ agricoltura provocando 17 morti e 84 feriti. 
Durante gli interrogatori muore l’ anarchico Giuseppe Pinelli.
Questa pagina di storia italiana resta ancora oscura e soprattutto impunita. Poichè non c’è ancora una verità occorre parlarne e chiedere che venga finalmente fatta luce su questo pezzo di storia italiana.

 

Attenzione l’ incontro è stato RINVIATO

Venerdi 18 Dicembre ore 21:00 – Sala Gallesio Finale Ligure

per una riflessione su Piazza Fontana

 

 

segue una riflessione scritta  

 

VIOLENZE NELLO STATO “DEMOCRATICO”.
Libri e pensieri intorno al quarantesimo anniversario della Strage di Piazza Fontana.

Adriano Sofri non è un’icona intoccabile: è solo un ottimo scrittore e ricostruttore di quanto successo negli ultimi anni in Italia. Le sue sono ricostruzioni di parte, cosa che, nel miele irto di chiodi in cui siamo invischiati, non possono che nuocergli, anche a sinistra. In una recensione di Daniele Giglioli su Alias-Il Manifesto, la lingua di Sofri (nella Memoria difensiva prodotta al tempo del processo, 1988-9 e poi pubblicata da Sellerio nel 1990), ampia, aspra e complessa, che “tiene costantemente il lettore sotto il ricatto dell’ironia”, viene messa a confronto con quella di Mario Calabresi: “…In Calabresi, al contrario, c’è qualcosa di umbro, o appenninico. Parla per bocca sua la tradizione (e in parte la mitologia) di un’Italia umìle, come la descriveva, sulla scorta di Dante, Pasolini, fatta di borghi e di campagne, di violenze subìte senza perdere la dignità…”. Trucco dello stile, caos delle facili contrapposizioni, anche se poi il recensore del volume di Calabresi Spingendo la notte più in là (2007) chiude scrivendo che “un tutt’altro tipo di italiano è uscito vincitore da quell’ultima appendice di storia italiana: un italiano che che non assomiglia né a Calabresi né a Sofri”, ovvero un ibrido di nuova generazione, inedito mostro pacchiano a dominare i processi reali come l’immaginario, mai diafano. A legarmi al volume di Mario Calabresi non è che la storia di quest’ultimo: un figlio cui è stato con violenza sottratto il padre. Se non tutte uguali sono le vittime (esse mantengono il loro statuto anche dopo la morte-consacrazione), sono spesso identici gli assassini, in una prigione dello Stato borghese come in un carcere del Popolo, o in una via di Milano (i miserabili compagni1 che hanno premuto il grilletto contro Luigi Calabresi, o quelli che sanno e non dicono, non meritano che disprezzo – tra la mia gente, c’è tradita sete di verità). Tranne in momenti di rivoluzione vera, tragedia e non farsa, o in estrema difesa dei deboli. A legarmi allo stile di Sofri è la sua anti-italianità, ovvero il non concedere nulla alla retorica del cuore, né alla confusione tra culturale, giuridico e sentimentale che domina il discorso presente. Apprezzai queste sue parole: “…Non perché ho fatto del bene a Sarajevo durante l’assedio, sono innocente del delitto Calabresi…” – l’eventuale innocenza dovrà scaturire da elementi interni al procedimento giudiziario.

 

ENTRATO VIVO E USCITO MORTO…

 

In La notte che Pinelli 2 un capitolo-chiave è dedicato a un famoso episodio del 1985 e ha per titolo una frase di Scalfaro, allora ministro degli Interni, relativa alla morte per tortura (un tubo in gola attraverso il quale viene pompata acqua di mare) nella questura palermitana, di Salvatore Marino, un piccolo e pericoloso mafioso: “Un cittadino è entrato vivo in una stanza di polizia ed è uscito morto”. Con questa frase Scalfaro denunciava l’insopportabile violenza a danno di chi, innocente o colpevole che diverrà, è sotto la custodia dello Stato, e che deve essere protetto, e non picchiato o torturato. Entrare vivi in una stanza della Questura e uscirne morti: paradosso del ‘monopolio statale della violenza’, la cui arbitraria estensione non puo’ che rivelarne la dubbiosa origine. I poliziotti che si erano resi protagonisti di quella tortura vennero uccisi o feriti dalla mafia il giorno dopo l’intervento di Scalfaro; uno di questi, “Natale Mondo, scampò per miracolo riparandosi sotto l’auto: uscirà dalla polizia, aprirà un negozio di giocattoli, e lì davanti sarà assassinato dalla mafia, nel 1988 (…). Mondo era quello che aveva infilato il tubo nella gola di Marino”, provocandone il decesso. Il limite non è sottile tra uso e abuso, e un clima culturale come quello dominante porta a giustificazionismi inaccettabili: i ‘nostri ragazzi’, a Palermo come a Kabul, sono intoccabili, nell’ottica pasoliniana di poliziotti figli-di-poveri, e studenti (rivoluzionari o tossici, ovvero talebani) figli-di-borghesi. Un’ottica falsante. Lo vediamo in questi giorni di fine ottobre: l’episodio di Stefano Cucchi, mediatizzato per la sua enormità impossibile da nascondere, ne ha riportati altri alla luce3: uno Stato che dovrebbe difendere i suoi cittadini, e soprattutto i detenuti, si permette atti di teppismo istituzionale, che nulla hanno a che vedere con la sicurezza e molto, invece, con la delinquenza. Facili sono gli accostamenti con altri eventi: Genova 2001, e i sempre più frequenti casi di ‘mele marce’ a servizio dello Stato e contro i cittadini – non ultimi quei cinque sottufficiali protagonisti del caso Marrazzo. Non ‘mele marce’, è evidente, ma sintomi continui della malattia politica annidata nei meccanismi dello Stato di diritto: la richiesta è la stessa per tutti, ‘lasciateci lavorare!’, dai presidenti del Consiglio d’ogni tipo e colore, all’ultimo dei poliziotti, ovvero spegnete la luce su quello che dentro le nostre mura accade perché ogni sguardo critico è un servizio al nemico. Ma chi è il mio nemico? Chi riduce a cadavere un uomo sbattuto in galera per il possesso di 20 grammi d’erba, o quest’ultimo?

 

LA NOTTE CHE PINELLI…

 

Scrive Sofri“…Rileggo la frase del ministro Scalfaro (…). 1985: ne era passato di tempo, e tuttavia non è possibile che a chi le pronunciò, e a chi le ascoltasse, non tornasse alla mente il nome di Pinelli…”4 Non credo che la strage di Stato del 12 dicembre 1969 e l’assassinio di Pinelli siano una delle tappe della violenza politica in Italia, ritengo piuttosto che ne siano il prologo fulminante capace di decidere cosa avverrà per il resto della corsa. In tutte le ricostruzioni un elemento balza agli occhi: il ruolo determinante di uomini dello Stato in trame contro cittadine e cittadini dello Stato stesso che, lungi dall’esserne protetti, da quegli umili servitori sono stati umiliati e straziati da ordigni e da una giustizia livida. Serve ricordarlo: la continuità tra Stato fascista e repubblicano è testimoniata dalla continuità delle figure istituzionali traghettate dall’uno all’altro senza ombra di ripensamento. Prefetti fascisti lasciati in carica (il 90%, ancora nei primi anni Sessanta), e il questore di Milano, Marcello Guida, che “era stato nel 1942 direttore del confino politico fascista di Ventotene”5. Il ruolo di Guida nell’indirizzare le indagini contro gli anarchici dopo la (o meglio le) bombe del 12 dicembre 1969 fu determinante: e le frasi pronunciate dopo l’assassinio di Pinelli – “Pinelli era fortemente indiziato di concorso in strage. Il suo alibi era crollato. Si è visto perduto. Si è trovato come incastrato. E’ crollato. E’ stato un gesto disperato, una specie di autoaccusa”- gridano ancora giustizia. Così come quelle di Luigi Calabresi a Licia Pinelli, subito dopo il ‘volo’ di Giuseppe Pinelli dal quarto piano della Questura: “ ‘Sono Licia Pinelli,’ gli ho detto e ho avuto come la sensazione che allontanasse la cornetta dall’orecchio. ‘Dov’è mio marito?’ ‘Al Fatebenefratelli,’ mi ha risposto. ‘Perché non mi ha avvisata?’ ‘Ma sa, signora, abbiamo molto da fare’…”6 Ma in quegli anni: che guazzabuglio di generali -sempre felloni: poi contrattano paghe e fughe all’estero-, brigadieri e faccendieri, neofascisti e informatori dei servizi segreti,estremisti di destra travestiti da anarchici e infiltratisi in organizzazioni extraparlamentari di sinistra, politici che fanno sapere di sapere tutto per poi trincerarsi dietro i ‘non ricordo’, giornalisti tv da subito colpevolisti (verso gli anarchici), etc. Che razza di Paese era, ed è, il nostro? I carabinieri e le altre forze dell’ordine (sic) sembravano e sembrano più impegnati a depistare che a scoprire piste valide di indagini: nei secoli fedeli, ma a che cosa? Parte delle forze dell’ordine contro una parte del Paese, con accanimento non terapeutico.

Il libro Una storia quasi soltanto mia di Licia Pinelli e Piero Scaramucci dà risposte molto precise all’orrore vissuto, che è stato l’orrore di tutta una generazione. Un libro scritto “per fare qualcosa che rimanga”7 e perché tutte le menzogne dette e scritte da subito dopo la strage non venissero portate via dal vento. Bugie di difensori dello Stato democratico. Cos’era lo Stato democratico, allora? Un organismo forte nella sua continuità con il regime mussoliniano, forte dei regimi dittatoriali che fiorivano in tutto il Mediterraneo (Portogallo, Spagna, Grecia, e mamma C.I.A. a tirare i fili), forte del suo assetto neocapitalistico ma, al tempo stesso, minacciato dalla potenza messa in campo da operai e studenti, a partire dal 1968. Contro e a difesa dello Stato si scatenarono forze immani, ed erano in parte le stesse: i difensori dell’ordine e della pace sociale mettevano le bombe sui treni e nelle banche per difendere la pace sociale e l’ordine.

 

GLI INDIVIDUI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI.

 

Non occorre chiamare in campo le condizioni storiche: un grande lombardo, Alessandro Manzoni, nella Storia della colonna infame scrisse che i giudici che mandarono a morte due “untori” (siamo nel 1630 e la peste imperversava nel milanese – come oggi, si potrebbe dire con Corrado Stajano in La città degli untori, 2009) avrebbero avuto tutte le possibilità di capire le menzognere accuse lanciate contro i malcapitati. Se questo non accadde non fu per la furia dei tempi, ma per violenta ignavia: la responsabilità è comunque personale, e almeno un bivio è a tutti concesso, a chi sta per uccidere come a chi sta per giudicare, che, a volte, è quasi la stessa cosa. Così quel sistema fu colpevole in ognuno dei suoi ‘difensori’, tutti innocentati o, addirittura, beatificati. Con il risultato che oggi al potere vi sono gli eredi diretti di quelle assoluzioni sul campo, e le giovani generazioni non sanno nulla di quanto successo appena qurant’anni fa, agiscono e vivono di conseguenza: sempre più giovani attribuiscono la Strage di Stato del 1969 a Brigate Rosse o Mafia, mentre ignorano i veri responsabili.

Il 9 maggio 2009, Giornata della memoria per le vittime del terrorismo, ha segnato il tentativo di far compiere un passo in direzione della riconciliazione e della “ricomposizione storica” (così si è espresso il presidente Napolitano). Non so se queste siano le parole di cui il nostro Paese ha bisogno, come di quell’altra, “condivisione” (della memoria storica), a proposito della Seconda guerra mondiale. Le parole e i gesti di quella Giornata sono stati comunque forti (il riconoscimento da parte di Napolitano di Pinelli come “diciottesima vittima di Piazza Fontana”, e la stretta di mano tra le vedove Pinelli e Calabresi), ma in contrasto con quanto si respira dappertutto: mai la storia è stata più divisa di oggi, mai così oggetto di massacranti revisioni, con i mezzi di informazione a far da grancassa. Storia divisa in quanto raccontata sempre a metà: le foibe, senza parlare delle violenze dell’esercito italiano in Jugoslavia, ad esempio, o il terrorismo rosso (iniziato nel 1945, secondo qualcuno, e ancora minaccioso…), ricettacolo d’ogni male, che avrebbe combattuto uno Stato profondamente democratico di cui si tacciono le Stragi compiute e le molteplici violenze. Altro che “coesione nazionale”! Mai la nazione è stata così spaccata, con una parte (divenuta minoritaria) continuamente demonizzata e insultata dai servi e dai vincitori d’oggi. Queste parole di Licia Pinelli: durante tutta la cerimonia al Quirinale sentivo “un’atmosfera che mi dava la sensazione, lì dentro, di uno Stato di diritto, di come potrebbe essere uno Stato di diritto.” E quando sei uscita?, chiede Scaramucci. “Un’altra Italia. Si respira un’altra aria fuori, diversa, molto, molto peggiore. Un’Italia di nessun diritto.”8 La piazza peggiore, molto peggiore del palazzo? Contro ogni esaltazione mitica della “società civile”, le parole di Licia Pinelli mi sembrano toccare una paradossale verità. Da completare con questo codicillo: tra piazza e palazzo è stata stretta un’alleanza micidiale (populista, sanfedista) a criminalizzare ogni tentativo di auto-organizzazione che provi a essere estraneo sia alla piazza sia al palazzo. In questo la responsabilità ‘super partes’ del presidente Napolitano, e di tutte le sinistre, non è poca. Il bipartitismo è sempre più elogio bipartizan del manganello.

Gianluca Paciucci

 

 

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